Malattie della pelle, l’arma efficace la fototerapia

Risultati sempre più incoraggianti per trattare patologie cutanee autoimmuni

fototerapia-111011152656-phpapp02-thumbnail-4

 

 

 

 

 

 

La fototerapia consiste nell’esposizione alla luce con particolari apparecchiature che permettono di irradiare il paziente o solo alcune zone specifiche del corpo, evitando l’uso di farmaci biologici, molto costosi, che possono provocare effetti indesiderati anche pesanti e sono comunque controindicati in pazienti portatori di infezioni croniche o che hanno sofferto di tumori. “La fototerapia è da tempo un approccio utilizzato con successo nel nostro ospedale – afferma il prof. Piergiacomo Calzavara-Pinton, Direttore del Dipartimento di Dermatologia all’Università di Brescia e Presidente SIDeMaST, (Società Italiana di Dermatologia medica e chirurgica, estetica e di Malattie Sessualmente Trasmesse) -, non riduce le difese immunitarie e può essere efficace quanto le terapie farmacologiche. Inoltre i costi sono ridotti rispetto all’uso di alcune molecole: un ciclo di farmaci biologici costa circa 15mila euro per paziente ogni anno, utilizzando le apparecchiature per la fototerapia si possono trattare efficacemente tra i 100 e i 200 pazienti al giorno, con un notevole risparmio per il sistema sanitario nazionale.” Con i nuovi macchinari, a tecnologia laser, LED o a eccimeri, l’esposizione alla luce può essere localizzata e regolata sulla persona e sul tipo di malattia modulando il sistema immunitario senza avere la tossicità sistemica tipica dei farmaci biologici, che tra l’altro non sono indicati in pazienti con epatite B o C, HIV e tumori.”

La dieta mediterranea, un buon complice per prevenire il tumore del pancreas

Fumo, obesità, età e sedentarietà rappresentano i principali fattori di rischio

alimentazione sana

 

 

Milano, 16 Novembre 2017 – In 15 anni i casi di tumore del pancreas sono aumentati del 59% nel nostro Paese: nel 2002 erano 8.602, nel 2017 sono 13.700. Le diverse abitudini alimentari spiegano le forti differenze geografiche nella diffusione di questa neoplasia che al Sud colpisce nettamente meno rispetto al Nord: – 25% fra gli uomini e -28% fra le donne. Il maggiore consumo di frutta e verdura fresche, tipico della dieta mediterranea ancora molto diffusa nel Meridione, protegge infatti dal rischio di insorgenza di questo tipo di cancro. Per sensibilizzare l’opinione pubblica e le Istituzioni, la Fondazione AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica) aderisce alla Quarta Giornata Mondiale sul Tumore del Pancreas. L’evento internazionale si celebra oggi nelle piazze centrali di quattro città (Piazza Gae Aulenti a Milano, Piazza Bra a Verona, Piazza di Spagna a Roma e Piazza Dante a Napoli), sono presenti gli stand delle associazioni dei pazienti, che distribuiranno volantini informativi. È anche previsto un volo di palloncini viola che partirà simultaneamente alle 17 da tutte le piazze coinvolte. I palloncini porteranno legati ai cordoncini pensieri di speranza per il futuro nella lotta contro la malattia raccolti nel corso della giornata dai passanti. “È fondamentale migliorare il livello di consapevolezza dei cittadini e delle Istituzioni su questa neoplasia e sull’importanza degli stili di vita sani – spiega il dott. Fabrizio Nicolis, Presidente Fondazione AIOM -. Nel mondo i nuovi casi sono più che raddoppiati in un decennio passando da 144.859 nel 2008 a circa 365.000 nel 2017 e si stima che nel 2020 saranno 418mila. Ogni giorno a livello globale sono 1.000 le nuove diagnosi.  “A oggi non vi sono metodi per la diagnosi precoce di questa neoplasia molto aggressiva – afferma il prof. Giampaolo Tortora, Direttore Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona -. Solo il 7% dei casi infatti è individuato in stadio iniziale, oltre la metà quando la malattia è già in fase metastatica. Spesso sintomi come dolore allo stomaco, gastrite e cattiva digestione vengono confusi con quelli di altre patologie. Il tasso di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è pari all’8%, superiore rispetto alla media europea (6,9%) e a quella dei Paesi dell’Europa centrale (7,3%) e settentrionale (4,8%), ma decisamente inferiore rispetto ai risultati raggiunti in altre neoplasie frequenti come quelle al seno e alla prostata”.

Per aumentare le diagnosi precoci e cambiare la storia di questo tumore, è necessario rafforzare la collaborazione tra specialisti. “Non è accettabile che alcuni pazienti siano operati in centri che svolgono uno o due interventi l’anno – sottolinea il prof. Massimo Falconi, Direttore del Centro del Pancreas dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e docente ordinario Università Vita-Salute di Milano -. Solo attraverso la giusta competenza si può curare questa patologia. La chirurgia pancreatica è estremamente complessa, infatti meno del 20% dei pazienti è candidabile a un intervento con intento curativo, con una sopravvivenza a 5 anni intorno al 20-30%. Numerosi studi scientifici hanno dimostrato che i rischi di gravi complicanze dopo un intervento sono più alti nei centri che eseguono raramente queste operazioni: ad esempio, uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha evidenziato che il tasso di mortalità dopo il più frequente intervento di chirurgia pancreatica (la duodenocefalopancreasectomia) è maggiore nei centri ‘a basso volume’ (mortalità = 16,3%) rispetto a quelli ‘ad alto volume’ (mortalità = 3,8%). In questo studio vengono definiti ad alto volume i centri che eseguono almeno 16 interventi di duodenocefalopancreasectomia all’anno. Anche in Italia è stata confermata la relazione tra esperienza dell’ospedale e rischio operatorio: un’analisi dei dati raccolti dal Ministero della Salute ha mostrato che nel nostro Paese, in un ospedale con poca esperienza in chirurgia pancreatica, il paziente ha un rischio di morire di 5 volte maggiore rispetto ai centri con più esperienza”. Questa analisi ha suddiviso gli ospedali italiani in quattro classi, in base al volume di interventi realizzati: la mortalità operatoria si è ridotta in modo progressivo all’aumentare dell’esperienza della struttura. È, infatti, pari al 12,4% negli ospedali che eseguono 1-5 interventi/anno, al 7,8% in quelli che ne svolgono 6-13, al 5,9% in quelli che ne eseguono 14-51, e solo al 2,6% nei due centri con maggiore esperienza (Ospedale San Raffaele di Milano e Policlinico G.B. Rossi di Verona), che effettuano, a testa, più di 350 resezioni pancreatiche all’anno. Va sottolineato che il 75% degli ospedali italiani che realizzano questo intervento rientra nella categoria “a basso volume”, cioè in quella con minore esperienza, mentre sono meno di 20 i centri in Italia che eseguono più di 13 interventi all’anno. “Così come è stato fatto con le Breast Unit – continua il prof. Falconi –, anche per il tumore del pancreas dovrebbero essere individuate strutture di riferimento certificate sulla base di chiari parametri (quantità, qualità e valutazione puntuale dei risultati clinici) e non per autoreferenzialità. Va poi sottolineato che la decisone di procedere all’intervento chirurgico non può essere affidata al solo chirurgo ma deve essere condivisa dall’intero team multidisciplinare che normalmente ruota attorno ai bisogni del malato (radiologo, endoscopista-gastroenterologo, patologo, oncologo/radioterapista). Non raramente una chirurgia poco utile o percorribile alla diagnosi può avere maggiori percentuali di successo se eseguita dopo una chemioterapia cosiddetta neoadiuvante (che precede cioè la chirurgia).” “La Giornata Mondiale è l’occasione per accendere i riflettori su questa forma di tumore – evidenzia Rita Vetere, Vice Presidente Salute Donna Onlus –. Purtroppo per questa patologia è difficile una diagnosi in fase iniziale in quanto la sintomatologia si manifesta tardivamente. L’incidenza è pressoché identica nei due sessi ed inoltre non sono stati individuati fattori predisponenti certi. I pazienti hanno bisogno di cure efficaci che diventano disponibili solo incentivando la ricerca medico-scientifica. Attualmente il carcinoma pancreatico riceve meno del 2% di tutti i finanziamenti per lo studio del cancro in Europa. Per migliorare i bassi tassi di sopravvivenza serve una vera e propria chiamata alle armi che vada dalla ricerca alla prevenzione, intesa come attenzione agli stili di vita, fino alle terapie, in stretta collaborazione con le Istituzioni, le altre Associazioni e i clinici”.

Tumore del seno: la biopsia diventa liquida,poche gocce di sangue per individuare le recedive

ScreenHunter_1811 Nov. 10 11.15

 

 

 

 

Roma, 10 novembre 2017 – Poche gocce di sangue per individuare il tumore del seno in fase iniziale e test genomici per personalizzare i trattamenti ed evitare alle pazienti inutili tossicità. La lotta contro la neoplasia più frequente fra le italiane (50.500 nuovi casi stimati nel 2017) passa attraverso le nuove tecnologie. In otto anni (2010-2017) nel nostro Paese le donne vive dopo la diagnosi di tumore del seno sono aumentate del 26%. Oggi 766.957 italiane si trovano in questa condizione. Un risultato molto importante, mai raggiunto in precedenza, soprattutto se si considera che per quasi 307mila donne (oltre il 40% del totale) la diagnosi è stata effettuata da oltre un decennio. Ai nuovi trattamenti nel carcinoma del seno è dedicata la quinta edizione dell’International Meeting on New Drugs (and New Concepts) in Breast Cancer, in corso all’Istituto Nazionale Tumori Regina Elena di Roma con la partecipazione di più di 200 esperti da tutto il mondo. “In quindici anni le percentuali di guarigione in questa malattia sono cresciute di circa il 5%, passando dall’81 all’87 per cento – afferma il prof. Francesco Cognetti, Direttore della Oncologia Medica del Regina Elena e presidente del Congresso -. Si tratta di un risultato eccezionale, da ricondurre alle campagne di prevenzione e a terapie innovative sempre più efficaci. Oggi abbiamo molte armi a disposizione, dalla chemioterapia all’ormonoterapia alle terapie target fino all’immunoterapia. E si stanno aprendo nuove prospettive per personalizzare i trattamenti, grazie a esami genomici che analizzano il DNA del tumore per capirne l’aggressività. In particolare un test prognostico e predittivo, Oncotype DX, supporta l’oncologo nella personalizzazione delle terapie in pazienti con carcinoma mammario in fase iniziale. È uno strumento utile nella scelta del trattamento per le donne che, in base alle caratteristiche anatomopatologiche e cliniche, sono in una sorta di zona grigia, in una fase in cui non si può includere o escludere con certezza la chemioterapia rispetto alla sola ormonoterapia. Per i risultati raggiunti questo esame è stato inserito nelle raccomandazioni delle principali linee guida internazionali”. In Italia, a partire da febbraio 2016, è stato attivato un programma di sperimentazione con il quale si è reso disponibile il test Oncotype DX nei centri di riferimento italiani per il tumore mammario. Da febbraio 2016 a settembre 2017 sono state testate 1295 pazienti di 27 strutture distribuite in due regioni, Lazio e Lombardia. “Prima del test la decisione terapeutica era orientata alla sola ormonoterapia nel 46% dei casi e alla chemioterapia in associazione all’ormonoterapia nel 51% – continua il prof. Cognetti –. A seguito del test la scelta è cambiata in modo tangibile: si è deciso di ricorrere alla sola ormonoterapia nel 66% delle pazienti e alla chemioterapia in associazione all’ormonoterapia soltanto nel 33%. L’utilizzo del test Oncotype DX ha quindi permesso di evitare la somministrazione della chemioterapia nel 50% delle donne a cui era stata inizialmente prescritta. La forte diminuzione dell’utilizzo improprio della chemioterapia, che è stato evidenziato anche da altri test genomici, può tradursi, da un lato, in un beneficio clinico per le pazienti che non vengono più esposte ad un eccesso di trattamento e al relativo rischio di tossicità immediate e tardive, dall’altro in un impatto favorevole sulla spesa sanitaria che oggi rappresenta un elemento di importanza fondamentale con cui anche i clinici devono confrontarsi”.  Un risparmio di risorse che può essere ottenuto anche grazie a diagnosi sempre più precoci. “La sfida è individuare in poche gocce di sangue i primissimi segni del cancro – spiega Massimo Cristofanilli professore di Medicina e direttore Precision Medicine alla Northwestern University di Chicago -. è la biopsia liquida, una tecnologia innovativa molto promettente, utilizzata oggi per la prevenzione secondaria durante il follow up, cioè per scoprire la formazione di eventuali recidive e metastasi nelle donne che hanno già sviluppato il tumore. Le tecnologie attuali ci permettono di capire nel 70-75% dei casi se la malattia svilupperà metastasi. Altre applicazioni sono in fase di sperimentazione: l’obiettivo è scoprire la malattia in fase preclinica, risultato che la mammografia non è in grado di ottenere. La biopsia liquida inoltre è facilmente ripetibile nel tempo, bastano 8-10 millilitri di sangue, a differenza di quella tradizionale che richiede l’escissione del tessuto tumorale”. “Oggi si sta affacciando una nuova classe di farmaci target, che intervengono nel rallentare la progressione del tumore del seno, inibendo due proteine chiamate chinasi ciclina-dipendente 4 e 6 (CDK-4/6) – continua il prof. Cristofanilli -. Queste molecole hanno dimostrato di essere superiori rispetto alla terapia standard nella fase metastatica e studi in corso hanno evidenziato la loro efficacia anche nella malattia di nuova diagnosi come trattamento preoperatorio. Nell’immediato le sfide riguardano i casi di tumore del seno più difficili da trattare: quelli triplo negativi e con metastasi cerebrali. In questi casi nuove prospettive sono offerte dall’immunoterapia”. “La stimolazione del sistema immunitario – afferma il prof. Cognetti – funziona soltanto in poche donne con tumore del seno, ma in questi casi con risultati davvero importanti, soprattutto nelle forme triplo negative, che costituiscono circa il 15% del totale. Nelle pazienti resistenti inoltre sono in fase di sperimentazione le combinazioni di immunoterapia e chemioterapia che può favorire la risposta del sistema immune”. Nuovi farmaci biologici come gli inibitori di Parp sono più efficaci della chemioterapia nelle pazienti che presentano mutazioni del gene BRCA, perché agiscono direttamente sui danni del DNA.

Fumo: una donna su quattro prosegue con il vizio dopo la gravidanza

Al via la campagna per mamme e bebe’ “speriamo che sia… l’ultima”

ScreenHunter_1795 Nov. 09 10.37

 

 

 

 

 

 

 

Torino, 9 novembre 2017 – L’iniziativa è promossa da WALCE Onlus e prevede un servizio di counseling in ospedali di 4 diverse città. Verrà regalato l’orsetto “Ector the Protector Bear” che tossisce se esposto alle sigarette. In Italia il 26% delle fumatrici, che hanno avuto un figlio, continua con questo vizio anche dopo il parto. Ciò avviene nonostante sia dimostrato scientificamente che fumare, durante questa delicata fase della vita femminile, provoca diversi danni alla salute. I più frequenti sono aborto spontaneo, parto prematuro, aumento della mortalità perinatale e infantile, basso peso alla nascita e ritardi nella crescita cognitiva. Per questo parte la campagna antifumo “Speriamo che sia… l’ultima”, la prima interamente rivolta alle donne in gravidanza e alle neo-mamme. È promossa da WALCE Onlus (Women Against Lung Cancer in Europe) l’associazione europea dedita ai pazienti affetti da tumori toracici, gode del patrocinio della Fondazione Onlus Medicina a Misura di Donna e della Fondazione Insieme contro il Cancro e viene presentata oggi a Torino che è una delle quattro città coinvolte nell’iniziativa. Le altre sono Napoli, Padova e Bari dove è attivato un servizio di counseling relativo al tema della cessazione del fumo e, più in generale, a favore dei corretti stili di vita. Le attività sono promosse dai centri ginecologici e ostetrici in collaborazione con le divisioni di oncologia e con personale medico pneumologico. Alle partecipanti viene anche regalato un utile strumento dedicato al nascituro: l’orsetto di peluche “Ector the Protector Bear” che tossisce se esposto al fumo di sigaretta o di altri prodotti a base di tabacco. Il giocattolo è disponibile grazie al contributo non condizionato di Roche. “Durante i primissimi anni di vita – afferma la prof.ssa Silvia Novello Presidente di WALCE e docente nel Dipartimento di Oncologia Polmonare all’Università di Torino – il fumo passivo può portare a morte improvvisa del lattante in culla, infezione delle vie respiratorie, asma bronchiale, sintomi respiratori cronici e otite acuta. E inoltre aumenta il rischio di diverse malattie oncologiche. Nel nostro Paese negli ultimi anni sono state introdotte norme sempre più restrittive. Tuttavia il 24% dei tabagisti ammette ancora di fumare in presenza di bambini e sette su dieci lo fanno regolarmente in luoghi chiusi. Con la campagna di WALCE vogliamo contrastare questa pericolosa tendenza e convincere un sempre maggiore numero di madri a interrompere il vizio”. Secondo gli ultimi dati in Italia i fumatori sono 11,7 milioni e rappresentano il 22% della popolazione. “Stiamo assistendo alla fine delle differenze di genere – aggiunge la prof.ssa Chiara Benedetto Direttore della Struttura Complessa Ginecologia e Ostetricia del Presidio Ospedaliero Sant’Anna -. Cala infatti il numero di uomini tabagisti che in un anno sono passati da 6,9 a 6 milioni. Però crescono le fumatrici che da 4,6 milioni del 2016 salgono a 5,7 milioni. Questo cambiamento si riflette anche nel tumore del polmone. Per questa neoplasia i nuovi casi tra le donne sono in aumento del 3% ogni anno. “Speriamo che sia… l’ultima” è quindi un progetto che vuole cercare di tutelare non solo la salute dei neonati ma anche quella delle mamme. L’inizio della maternità è un momento perfetto per cambiare radicalmente il proprio stile di vita”.